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31-01-2023

La diffusione della canzone napoletana tra l'Ottocento e il Novecento

a cura di Nicola Di Lecce

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L’ottocento è certamente tra i più ricchi ed interessanti cicli della vita della canzone a Napoli, infatti in questo secolo si riescono a raggiungere dei precisi standard compositivi ed esecutivi, caso unico nel panorama italiano, tanto da poter vantare la presenza a partire dal 1839 di un proprio festival quello di Piedigrotta. Osservando più complessivamente il panorama della canzone napoletana si riesce quasi a intuire una sorta di percorso autonomo all’interno di una prospettiva nazionale, quasi che la canzone napoletana si distaccasse da quella italiana compiendo una sua parabola autonoma: gli inizi popolari, l’elaborazione di forme fisse e musicali (una su tutte la tarantella) e di argomento (amore, tradimento, bellezza di Napoli...). Achille de Lauzières, riconosceva un valore musicale autonomo alle canzoni: «queste stupende canzoni napoletane, scriveva nel 1882, devono essere proprio belle e coinvolgenti in quanto melodie, giacché sono apprezzate anche da coloro che, non comprendendo il dialetto della città delle sirene, non possono afferrare il senso delle parole». All’inizio del secolo vi fu un fervido lavoro di ricerca, di riscoperta e di riproposta delle canzoni del passato, che possono ritenersi il primo vagito, le basi sulle quali sono state erette le colonne di un grande fenomeno mondiale: la canzone napoletana. Infatti, si rileva nei nuovi poeti e musicisti, una continua ispirazione popolare, i temi delle nuove canzoni riprendono quelli tramandati dal passato: amore, dolore, drammaticità, nostalgia e persino ironia. Da Cottrau a Di Giacomo tutti più o meno attinsero dal vecchio repertorio. Cottrau prese a dedicarsi ai canti popolari, girando per l’entroterra alle pendici del Vesuvio con un libricino dove appuntava i canti ascoltati nelle campagne, Salvatore Di Giacomo autore per antonomasia della canzone classica napoletana modelli e forse tra i maggiori poeti della nostra terra, non disdegna certamente la musica popolare, a testimonianza di questo «le raccolte ottocentesche di canzoni napoletane nelle quali è contenuto quanto dimeglio nel popolo sopravviveva dell’antico canto popolaresco e quanto i nuovi poeti e musicisti venivano producendo sugli antichi modelli». ‘E Spingule francesi scritta nel 1888 musicata da Enrico De Leva, ha origini pomiglianesi ed è stata solo riscritta dal Di Giacomo, ovviamente con sapienza e maestria, dandole un significato ironico e quasi morale, di interesse socio-antropologico. Origini popolari dunque, che non sempre sono state poste in evidenza, non sempre sottolineate. La prova è nei volumi scritti da Vittorio Imbriani ed Antonio Casetti nel 1871 ed editati sotto il titolo di “Canti Popolari delle Province Meridionali”.


Il canto in questione è presente, sotto la voce Pomigliano d’Arco. Il testo pomiglianese è il seguente: Nu juorno mme ne vavo casa casa. Vavo vennènno sbincole francese. Esce ‘na nenna da dinte a ‘na casa: - Quanta sbincole daje ppe’ ‘no tornese? Io non le benco a grano e manco a tornese. Le benco a che mme dona duje vasi Bello figliulo, non parla’ de vasi, tengo ninno mmio, ca è ‘no ‘mbiso. Nenna, si mme li duone duje vase, Io te dono le spincole e pure ‘a spasa. Te l’aggio ditte, no’ parla’ de vase, ca’mbocca a la porte mmia tu nce sì’acciso”. È naturale chiedersi allora, di chi è il merito di aver preparato un così fertile terreno ai poeti e ai musicisti per la rifioritura della “canzone napoletana”. Un grande merito, certamente può essere attribuito all’opera degli editori, infatti Napoli già nel 1809 è la prima città a sviluppare una editoria musicale. Il primo editore che capì l’importanza della stampa delle canzoni fu Girard, che si trasferì da Ginevra a Napoli dove allestì una sorta di tipografia, stampando le prime edizioni di brani d’epoca a prezzi accessibili al popolo. Girard riuscì a stipulare dei contratti con Domenico Barbaja impresario del teatro di San Carlo. Barbaja non molto colto, ma buon intenditore musicale, gestiva il successo di grandi compositori come Gioachino Rossini, Gaetano Donizetti o Vincenzo Bellini. E questo non solo nei teatri gestiti direttamente da lui, ma anche per le sue entrature in altri grandi teatri. La sua celebrità fu tale che venne chiamato “il principe degli impresari” e “ il viceré di Napoli. Girard fu incaricato dal Barbaja di copiare partiture, in cambio ebbe la possibilità e l’esclusiva di fare delle piccole partiture per pianoforte e voce facilitate per i salotti napoletani. Arrivarono così sul mercato una grande varietà di prodotti che rispondono al profilo economico e alla competenza musicale dei diversi acquirenti . In particolare, si diffuse per le strade un nuovo tipo di supporto cartaceo, la copiella, destinata agli appassionati, dotati di una buona musicalità; persone comuni, che la utilizzano per “cominciare a canticchiare le canzoni preferite, per loro stessi o nelle serate passate con gli amici. Le copielle erano distribuite da girovaghi e cantanti ambulanti. Uno di questi fortunati tipografi- editori fu Francesco Azzolino, il quale stampò 180.000 copielle del celeberrimo successo Te voglio bene assaje, che pare non sia stata scritta nel 1835, attribuendone le musiche al grande Donizzetti bensì, nel 1839 dal maestro Campanella. Qualche anno dopo Giuseppe Girard cedette la proprietà e posto al figlio Bernard mentre la direzione della casa editrice venne affidata a Guglielmo Luigi Cottrau, il quale ne divenne in seguito proprietario.


Guglielmo Luigi Cottrau fu letterato e musicista, i suoi studi li compì a Napoli dove rimase affascinato dal folklore e dalla musica. Fu abile trascrittore e arrangiatore di brani antichi di autori anonimi nonché compositore di numerose canzoni, contribuendo così in maniera determinante alla diffusione della canzone napoletana non solo in Italia ma in tutta l’Europa. Come già detto gira per le campagne e appunta le canzoni di tipo popolare le trascrive per pianoforte e voce e realizza così “I passatempi musicali”. «Il primo fascicolo dei passatempi musicali curati da Guglielmo Cottrau esce nel 1824. Grazie alle puntuali ricerche di Raffaele Di Mauro sappiamo che tra il 1824 e il 1829 vennero pubblicate 68 canzoncine napoletane. Ci furono poi dei supplementi che contenevano altre canzoni nel 1843 e 1945. Nello stesso 1845 l’editore Girard, di cui Cottrau era socio, stampa una “Strenna Musicale” con brani in napoletano di Francesco Florimo intitolata “I canti della collina”. E ogni anno uscì poi una strenna con opere originali di Florimo fino al 1851. A mano a mano le case editrici si imposero sempre di più prepotentemente nella città di Napoli, da citare quella dei fratelli Fabbricatore e dei fratelli Clausetti, le quali raccoglievano, scrivevano e pubblicavano canzoni vecchie e nuove. Ci furono, persino, un’infinità di piccole tipografie che si improvvisarono case editrici inondando la città con le caratteristiche “copielle”, fogli volanti di vari colori sui quali erano stampati i versi e la musica dei brani più noti dell’epoca. Non c’era fatto a Napoli che non aveva la sua buona canzoncina che girava con i fogli musicali. Gli autori di queste canzonette non possono essere considerati dei veri e propri autori, erano medici, avvocati, professionisti che si divertivano a scrivere canzoni. Le piccole case editrici vengono assorbite dalla Ricordi 1850 che acquista anche tutte le partiture del San Carlo. «La Polyphon è la prima casa a mettere sotto contratto gli autori. Di seguito è riportata la copia del contratto tra la Polyphone ed il M° Pasquale Ernesto Ponzo». Se da una parte il merito della diffusione delle canzone napoletana dell’ottocento è da attribuire alle case editrici, dall’altra non bisogna assolutamente trascurare l’opera di particolari figure inscindibili dalla storia e dalla cultura di Napoli umili e sconosciuti propagatori di poesie e melodie non di rado destinate all’immortalità: i posteggiatori.


Questi cantori girovaghi che si organizzarono spontaneamente tra il Vesuvio e Posillipo già intorno al settecento dando vita alla mobilissima quanto poverissima arte della Posteggia, rappresentano una tradizione popolare che ha un suo posto incancellabile nella storia della musica e della poesia dell’Europa Mediterranea. Può essere interessante, per meglio conoscere i posteggiatori, risalire al mondo dei cantastorie, dei suonatori ambulanti. I posteggiatori sono cantastorie in quanto custodi di un patrimonio canzonettistico che ha radici lontane è lo stesso Artieri a considerare i posteggiatori, fin dalle prime pagine del suo studio, come «l’ultimo residuo di una spinta naturale della poesia e della musica che cominciò nel medioevo e produsse i trovatori, i menestrelli, i portatori di favole e notizie» Il termine “posteggiatore” assume a Napoli, tra fine Ottocento e inizio Novecento, un nuovo significato per indicare un’attività musicale ambulante svolta in buona parte in luoghi esterni, senza fisso compenso e remunerata con la questua finale, tramite il giro col “piattino” (‘o rasto). Il repertorio dei posteggiatori si colloca pertanto a metà tra il canto popolaresco e la canzone napoletana, il primo frutto di una creazione collettiva che trasmette di generazione in generazione la sensibilità poetica e musicale del popolo al quale appartiene, la seconda, invece, risultato dell’inventiva di un singolo, ma ispirata al canto popolare: esiste cioè tra le due creazioni poetiche un rapporto di derivazione naturale perché senza il canto popolare non è concepibile la canzone napoletana. «L’intensa attività dei musicisti ambulanti in questo settore costituisce una vera e propria azione promozionale, accompagnata anche dalle cosiddette “copielle” forma aggiornata dei tradizionali “fogli volanti”, prodotta dagli stessi editori di canzoni in una linea più economica rispetto alle versioni per canto e pianoforte, con la pubblicazione del solo “rigo di canto”, accompagnato spesso dalla fotografia degli interpreti e dalla pubblicità di prodotti vari».


La Napoli dell’ottocento affascina molti uomini illustri che durante il loro soggiorno in città, tra le tante bellezze scoprono, grazie proprio ai posteggiatori tutto il meraviglioso repertorio di canzoni napoletane, dalle più allegre alle più malinconiche. Nel 1880 il leggendario compositore tedesco Richard Wagner ospite d’onore del principe d’Andri a Villa Dorotea, si ritrovò ad ascoltare la voce di Giuseppe di Francesco, detto ‘O Zingariello, un posteggiatore famoso soprattutto nella seconda metà del’800 così soprannominato per la piccola statura e per la vita nomade, ne rimase rapito, e gli espresse il desiderio di portarlo con sé in Germania. La leggenda vuole che Giovanni di Francesco rifiutasse questo invito, in realtà Giovanni seguì Wagner senza batter ciglio. Una caratteristica di questa categoria di musici era la “Parlèsia” una vera e propria lingua che si erano inventati per poter liberamente parlare davanti ai clienti senza dare loro nessuna possibilità di essere intesi Appunisce si o jammo base spunisce ‘a banesia o fa addò va! Per chi lavora nel campo dello spettacolo, in particolare musicale, significa: “cerca di capire se il capo paga oppure no!” Le ultime generazioni di posteggiatori conoscono molto poco questa parlata, di questa lingua nascosta che fu appunto un tempo circoscritta della musica errante, dove è nata come strumento di difesa verso il mondo circostante, non sempre favorevole. Se, da un lato, l’avvento delle case editrici, in particolar modo della Poliphon, che con i contratti agli autori incentivava la produzione di canzoni e certamente favoriva i posteggiatori che potevano contare su una maggiore quantità di materiale a disposizione, dall’altro lato, con introduzione, sin dal 1912, delle «macchine parlanti», i grammofoni., si fa sì che inizi il lento declino della posteggia. Prima i grammofoni, poi la radio, la diffusione delle canzoni a poco a poco non ebbe più bisogno delle orchestrine all’aperto e i posteggiatori si avviarono verso l’ultima fase della loro parabola. Di fronte al progressivo affermarsi delle tecniche di riproduzione della voce, che privilegiavano i cantanti «di teatro», e davanti al lento declinare dell’epoca d’oro della canzone, la posteggia ripiegò fino a ridursi a pura testimonianza, nei suoi ultimi epigoni. Ci fu sempre un grande divario tra i grandi della canzone con i posteggiatori. Infatti, la canzone napoletana consacrava interpreti come: Pasquariello, Papaccio, Parisi, Donnarumma, Mignonette, e tantissimi altri, mentre ai posteggiatori, nessun riconoscimento venne mai offerto. Solo due grandi cantanti lirici mostrarono per loro considerazione e affetto: Enrico Caruso, che con i posteggiatori trascorse addirittura molte ore delle sue ultime giornate e Beniamino Gigli, che li definì «l’anima di Napoli». Certamente la diffusione della canzone Napoletana, non può certamente limitarsi ai due aspetti analizzati: case editrici e posteggiatori, ma va considerata come un lungo processo che fonde diversi aspetti: quello storico, sociologico, antropologico e musicale, e soprattutto culturale. Aspetto culturale di un popolo, che trova nel canto la sua manifestazione più genuina, e fa si che la canzone classica napoletana costituisca quello che è oggi un patrimonio “emozionale” dell’umanità.

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